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Difficoltà

4,73 km

lunghezza

202 mt

Dislivello

Circa 2h

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CESE - PROCUOIO - GUADO SPACCATO

Ritrovo in Piazza Falconi per dirigersi verso la parte alta del Paese. Dopo una breve sosta in Piazza Emanuele Gianturco ci si incammina lungo Via Marconi, dove è visibile un abbeveratoio e La Croce del Calvario.
Sentiero 312

Superata l’area del serbatoio comunale, appena dopo il ponte, si svolta a destra in direzione Fonte Fredda, dove di recente è stato ristrutturato un abbeveratoio e dove si trova una vecchia presa d’acqua che alimenta in parte l’acquedotto comunale.

Proseguendo si raggiunge la Croce del Procuoio e seguendo l’antica viabilità (che aveva come meta ultima il Comune di Agnone), si raggiunge la località denominata Orto Ianiro.

In questa area si possono ammirare numerosi resti delle costruzioni contadine – pastorali chiamati Tolos e muretti in pietra a secco, frutto del duro lavoro di spietramento delle aeree da adibire a coltivazioni o a pascolo. I muretti fungevano da confine tra le varie proprietà terriere. Salendo si raggiunge la località Val Rapina dove si incontra dapprima un rifugio di recente costruzione e più a monte i resti di un altro rifugio di vecchia datazione.

Il faggio (Fagus sylvatica L.) è un grande albero, alto fino 40 metri, che forma boschi stupendi Il faggio cresce sopra gli 800-900 metri di altitudine, in gran parte dell’Italia appenninica. Così, quando compaiono le faggete, si sente l’aria diventare più fresca e frizzante, e si comincia a respirare l’odore di montagna pura. Il tronco del faggio è liscio. Il faggio viene coltivato in boschi cedui per la produzione di legna da ardere, tuttavia negli ultimi anni si è avuta una conversione da ceduo a fustaia per soddisfare l’interesse commerciale. Come legname viene impiegato nella costruzione di mobili, giocattoli e utensili da cucina. Grazie alla sua compattezza viene inoltre apprezzato nella costruzione di sedie, pavimenti e banchi da lavoro. Nel passato il legno di faggio era il preferito dai “bastai” per la preparazione delle “corve” che venivano utilizzate per la preparazione delle “varde” ovvero selle utilizzate per asini e muli. Nel “Bosco di Barbara” di Capracotta, è presente uno dei “grandi alberi” della provincia di Isernia, di rilevante valore paesaggistico. Il nome scientifico è Fagus Sylvatica L., ha una circonferenza di 360 cm e un altezza di 12 metri. Per ammirarlo si segue la Strada Provinciale Montesangrina a circa 2 km, dal bivio di Capracotta direzione Isernia, a destra. (Dott.ssa Maria Ricci)

Dalla Val Rapina si raggiunge l’area denominata Cimalte

Da lassù si ammirano paesaggi incantevoli, la Valle del fiume Verrino, Sprondasino, Pietrabbondante ed altri comuni dell’area, nelle giornate di sole in lontananza si vede persino la città di Campobasso.

Il territorio è ricoperto da Faggi e rari Aceri Montani e molta superficie di queste aree è adibita a pascolo.

Si incrocia il sentiero 310 che porta pendici del Monte San Nicola. Qui è possibile visitare la Grotta di San Nicola.

DIRAMAZIONI

Lungo il sentiero 312, in località Croce del Procuoio, si incrocia il sentiero 312A che raccorda il sentiero 312 con il sentiero 331.

Punti d'interesse

Palazzo Baronale
IL PALAZZO BARONALE DI CAPRACOTTA

Il Palazzo Baronale di Capracotta, attuale municipio viene costruito nel XVI secolo come sede del potere baronale sul territorio durante la signoria della famiglia D’Eboli. In pratica era il palazzo baronale.

Non conosciamo la data precisa e il nome del barone. Esso, comunque, è realizzato al di fuori delle mura cittadine in un periodo di grande espansione economica, demografica e urbanistica di Capracotta: in quel secolo la cittadina esce fuori dagli angusti spazi della Terra Vecchia e si espande tutto’intorno.

Il Palazzo, nel corso dei secoli, è stato più volte oggetto di rifacimenti. Nel 1706 fu danneggiato dal terribile terremoto che colpì duramente Sulmona. Nel 1755, don Giacomo Capece Piscicelli succede nel titolo feudale di Duca di Capracotta al padre don Giuseppe. Provvede a ristrutturare per intero l’edificio. Il Palazzo vive il suo splendore, però, durante gli ultimi anni di vita della nuora del Duca Giacomo, Mariangela Rosa De Riso. Siamo agli inizi del 1800, durante il cosiddetto Decennio Francese (1804- 1814).

La Duchessa arreda le stanze con mobili dorati, accoglie gli intellettuali locali e vi organizza degli spettacoli comici per il sollazzo della popolazione. Con la fine del feudalesimo, il Palazzo viene venduto e da simbolo del potere feudale si trasforma nella sede del potere amministrativo della comunità cittadina.

Nel libro di Campanelli “Il territorio di Capracotta” del 1931, l’autore avanza l’ipotesi che il Palazzo Baronale possa essere stato costruito nel 1568 dal barone dell’epoca Gianvincenzo d’Ebulo al momento della sua successione al padre nel titolo feudale. In realtà, Campanelli traduce alla lettera la formula Castrum Capraecottae come castello (forte, rocca) di Capracotta, quindi il palazzo del barone, dimenticando (o non sapendo oppure sorvolando) che questa formula stava a indicare una cittadina dotata di mura, come sicuramente era Capracotta per quell’epoca.

Infine, sempre nella medesima opera e nella medesima pagina ancora Campanelli ricorda che nel 1667 c’è un accenno nel Libro delle Memorie al fatto che i cittadini si raccoglievano al pian terreno del palazzo in “pubblico parlamento” per discutere su importanti questioni.

Scarica il PDF “Il Territorio di Capracotta” (24,5MB)

La Bertesca
LA BERTESCA DI PIAZZA DI TELLA

All’angolo di un palazzo di Piazza Di Tella, in cima al Colle, è visibile una sorta di “balconcino” con la parte inferiore a forma conica. Si tratta dei resti di una bertesca medioevale: un antico strumento militare difensivo realizzato sulla mura di edifici fortificati per respingere gli attacchi di eventuali assedianti. Nella “nostra” bertesca manca completamente la parte superiore in muratura che consentiva ai difensori di poter scagliare, dall’alto e in maniera protetta, frecce, pietre, sostanze infiammate o liquidi bollenti sui nemici.

La presenza di una bertesca sul Colle ci consente di retrodatare almeno al XIV – fine XV secolo l’uscita dell’abitato di Capracotta dal quartiere originario (chiuso nel Medioevo da mura) di Terra Vecchia, cioè l’attuale zona della Chiesa Madre. La nascita dell’artiglieria, a fine quattrocento rese infatti inutile il ricorso a questo tipo di elemento architettonico, sarebbe bastata una cannonata per farla cadere giù insieme a tutti i difensori.
Oggi, i resti della bertesca di Piazza Di Tella rappresentano forse il più antico “monumento” di Capracotta dopo le distruzioni operate dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

(Dr. Francesco Di Rienzo)

EMANUELE GIANTURCO

Giurista, deputato, dal 1893 fu più volte ministro (Pubblica Istruzione, Giustizia, Lavori Pubblici).

Nel 1902 ottenne dalla Corte di Cassazione la sentenza che assegnava alla città di Capracotta il diritto di taglio dei boschi circostanti; il comune gli conferì per gratitudine la cittadinanza onoraria.

Nel 1912 fu inaugurata una statua in suo onore, collocata nella omonima Piazza.

Scarica il PDF “VORIA – Speciale Emanuele Gianturco” (2,7MB)
CROCE DEL CALVARIO

E’ una croce in ferro, con base in pietra. Fu posta nella parte più alta dell’abitato di Capracotta (nelle vicinanze del serbatoio comunale), nell’anno 1907 per volontà del “Remita Fiadino” di San Luca, dedicata a “Gesù di Passione”.

FONTE FREDDA

Il nuovo abbeveratoio denominato Fonte Fredda, di recente realizzazione, è sito nei pressi della presa d’acqua che alimenta in parte l’acquedotto comunale.

Nelle immediate vicinanze si trovano i resti dell’antico abbeveratoio del Procuoio Vecchio.

PROCUOIO

Un’area del territorio di Capracotta che nei decenni passati ha rappresentato uno dei punti tra i più rilevanti per il mondo della pastorizia e dei contadini.

Lì nel lontano 1925 fu posizionata una croce ancora esistente a devozione di Carmine Trotta.

SPIETRAMENTI

Azione di bonifica del territorio montano operata dai contadini e dagli allevatori ai fini dell’incremento delle loro attività produttive.

Il fenomeno si accentua maggiormente tra il XVIII ed il XIX secolo, allorquando a seguito di un forte incremento demografico, si dette avvio ad una attività di spietramento del territorio alle quote più alte, proprio per consentire una maggiore disponibilità di pascolo, mentre più a valle i terreni vennero utilizzati prevalentemente per fini agricoli.

Le pietre venivano utilizzate per la realizzazione di muretti a secco per la delimitazione dei confini oppure per la costruzione di ricoveri, detti tolos.

VAL RAPINA

In quest’area era posizionato un antico stazzo di pecore.

Oggi si trova un casolare di recente ristrutturazione.

Nell’area della Val Rapina si raccolgono, seppur in modica quantità rispetto al passato, i gustosi orapi, spinaci selvatici (in dialetto capracottese “voccarusc”).

CIMALTE

Cime Alte.

Uno dei luoghi più elevati del territorio di Capracotta che nel passato destinato alla coltivazione di diversi prodotti della terra.

Oggi adibito prevalentemente a pascolo.

GUADO SPACCATO
Valico di inizio di una delle bretelle di raccordo del sentiero 310.
MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA E DEI VECCHI MESTIERI

Il museo è una tappa del paese da non perdere che affascina il visitatore attraverso un piccolo viaggio guidato nella memoria e nel ricordo del passato, dove viene riproposta la vita quotidiana, cioè quella densa di sacrifici, da un lato, ma anche di momenti di grande calore e condivisione dei nostri nonni e bisnonni.

Pezzi in disuso, strumenti di lavoro e della quotidianità, tutti autentici e talvolta rari, patrimonio di una società ancora fortemente legata alle sue antiche origini, sono esposti, con cura, nelle sale del museo, allestito al pianterreno del Palazzo Baronale, oggi sede del Municipio che nel passato ha ospitato le varie famiglie feudali che si sono succedute nel territorio di Capracotta.

Per la realizzazione di questo museo va un grazie speciale non solo all’Amministrazione Comunale che lo ha realizzato, scegliendo dei locali, che riportati alla loro originale struttura, hanno contribuito a rendere ancora più accogliente e suggestiva questa passeggiata nel passato, ma anche al Signor Loreto Di Nucci che ha iniziato un paziente lavoro di ricerca e di raccolta di vecchi oggetti utilizzati nelle attività agricole ed artigianali legate alla vita capracottese, affinché non andassero perduti e, agli abitanti residenti nel paese e non, che hanno contribuito ad arricchirlo donando oggetti che si sono tramandati e che custodiscono gelosamente nelle proprie case, legati al mondo contadino di ieri e per, alcuni aspetti, di oggi. Le caratteristiche dello spazio espositivo e i criteri di allestimento consentono un’agevole visita. Di attrezzi e di oggetti in genere ce ne sono davvero tanti, ognuno testimone di arti manuali tramandate di generazione in generazione che hanno fatto la storia del nostro paese. Inoltre sembra quasi che ogni attrezzo rechi, ancora oggi, le impronte delle mani di chi li ha costruiti, utilizzati, riparati e tramandati. Quindi, da ciò, è facile dedurre che dietro ciascun oggetto c’è una storia, anzi, sono gli oggetti la storia stessa che si dipana come una tessitura fatta di povertà. Ogni oggetto è stato prima catalogato e poi identificato da un cartellino su cui è scritto sia il nome in dialetto capracottese che in italiano (così tutti possono capire di cosa si tratta e a cosa servivano), sia il nome della persona o della famiglia che lo ha donato al museo. Da subito i visitatori hanno capito ed apprezzato l’intento della responsabile del museo cioè quello di offrire a coloro che lo visitano scorci di vita contadina che hanno caratterizzato, da sempre, l’uomo capracottese mantenendo viva la memoria delle tradizioni e della storia capracottese, facendo fare a tutti un bellissimo tuffo nel passato … Il percorso è stato concepito come un immaginario viaggio nel passato attraverso le principali fasi della vita del popolo capracottese ben documentate da oggetti, fotografie, ecc…, esposti nel museo.

Varcata la porta d’ingresso si può da subito ammirare l’antica muratura in pietra arricchita di archi di una precisione millimetrica, ritornata alla luce grazie ad un intervento di restauro, che ha consentito di riproporre, all’attenzione e alla curiosità dei visitatori, un esempio di edilizia abitativa locale, testimonianza di un modo di lavorare che appartengono da sempre alla comunità capracottese.

Gli spazi espositivi racchiudono i più svariati oggetti che testimoniano, anzi raccontano, in maniera molto chiara, come si svolgevano le varie attività agricole e artigianali che da sempre hanno fatto parte della vita quotidiana e lavorativa del popolo capracottese e che oggi, sono scomparse del tutto o quasi. Strumenti di lavoro di altri tempi, necessità quotidiane dei pastori, dei contadini, delle donne e degli artigiani (falegnami, calzolai,sarti, fabbri, ecc…), sono esposti con cura nelle sale dove è allestita la mostra.

All’ingresso, su entrambi i lati, troviamo due manichini che indossano i costumi tradizionali capracottesi e sulle spalle la donna ha appoggiato uno scialle mentre l’uomo il classico tabarro (“cuappott a rota” in dialetto capracottese). Proseguendo troviamo una sala con sedie adatta per convegni, per la presentazione di libri, ecc…. Qui è possibile ammirare l’antico meccanismo che faceva muovere le lancette dell’orologio posto sull’antica Torre dell’Orologio che, al contrario è stata demolita nel 1970 ed è stata riprodotta in miniatura per far vedere come era strutturata. Completano la sala alcuni documenti antichi come la lettera di Giuseppe Garibaldi inviata alla Società di Mutuo Soccorso di Capracotta ed alcune lettere di un emigrante capracottese e articoli di giornali del 1950, entrambi, risalenti al periodo in cui fu donato lo “Spazzaneve Clipper” al paese.

Tali oggetti, ben combinati nel percorso, rievocano il lavoro degli uomini dediti al pascolo, alla preparazione del formaggio e della ricotta e alla cura della terra; accanto, ai quali, ci sono altri numerosi attrezzi che ricordano, nella memoria, gli antichi mestieri del tempo e i vari momenti di lavoro che venivano svolti durante l’arco della giornata. Altri spazi sono riservati al calzolaio e al falegname, dove sono visibili arnesi dimenticati dalle moderne tecnologie e che mostrano i ritmi e le consuetudini degli artigiani di un tempo. Un altro spazio ospita l’arte femminile dove vi sono esposti alcuni attrezzi della tessitura.

Sono visibili, in un altro spazio del Museo, varietà di ceste di vimini di varie grandezze, setacci, ecc…, utili ed indispensabili alla pulizia del grano e alla lavorazione della farina. Infine, un angolo è stato dedicato alla neve, da sempre, amica e nemica dei capracottesi.

In sintesi, all’interno del museo, sono presenti oggetti appartenuti alla vita pastorale, contadina e artigiana del popolo capracottese, che hanno subito mutamenti nel loro percorso di trasformazione avvenuti nei secoli successivi. Essi, inoltre, ne hanno segnato il passaggio da testimonianze reali e materiali, in generale e nello specifico, di forme di lavoro e di vita domestica non più attuali, a reperti da raccogliere, conservare, catalogare ed esporre in spazi museali (come nel nostro caso), nei quali, i visitatori possono ritrovare i segni della propria identità e riconoscerne, sotto tutti i punti di vista, le proprie origini.

La vita quotidiana di un museo è data dall’insieme di molte attività, spesso disparate nei modi in cui si realizzano e che sembrano svolgersi in direzioni diverse: la conservazione, la tutela, la risistemazione di alcuni oggetti, l’esposizione nelle varie sale, la cura, la catalogazione e la ricerca del materiale. In realtà il lavoro che si svolge dietro le quinte di un museo della civiltà contadina, si sforza sempre di raggiungere un unico obiettivo: conoscere e affermare la nostra identità culturale e rendere partecipe la gente che la storia di chi ci ha preceduti è la nostra storia. Per questo il museo vuole dialogare con i visitatori raccontando la sua “vita quotidiana” come se stessimo sfogliando un album di famiglia.

(A cura di Emilia Mendozzi)

UNO XENODOCHIO A CAPRACOTTA

In via Arco a Capracotta, allo spigolo di un fabbricato, rimane a vista una lapide apparentemente incomprensibile, non solo perché è in latino, ma anche perché segnala qualcosa che non esiste più.

Si tratta di una pietra rettangolare, limitata da una cornice piuttosto semplice e di grandezza non particolare, dalla quale si ricava con un po’ di fatica questa epigrafe:
XENODOCHIUM HOC VETVSTA
TE MAJORVMQUE INCVRIA PENITVS
DEMOLITVM ANNO ITERO 1720
ET 1721 A FVNDAMENTIS RAEDI
FICATVM FVIT EX LEGATO R.D. PHI
LIPPO BARDARO ET NONNVLLORVM
PIETATE

Questa pietra non sfuggì a Luigi Campanelli che ne parlò nelle sue Memorie su Il Territorio di Capracotta. Egli annotava, peraltro, che l’area vicina veniva definita con il toponimo di Ospedale.

Quest’ultima notazione forse ci aiuta a capire qualcosa che oggi non esiste più, ma che una lapide ci costringe a ricordare.

Il termine ospedale si riferisce ad una struttura che ha la funzione specifica di accogliere ed assistere persone che si trovano in un particolare stato fisico. Non pensiamo ai moderni nosocomi. Nel medioevo gli ospedali erano edifici di grande semplicità destinati ad una accoglienza molto sommaria. Quasi sempre non più di uno stanzone dove poteva essere accolta, anche in promiscuità, una persona che aveva bisogno di cure che privatamente non era in grado di farsi fare. Una particolare attenzione a tal tipo di assistenza appartenne a congregazioni laicali che nel regno di Napoli si diffusero al tempo di Roberto d’Angiò con il proliferare delle congreghe dedicate all’Ave Gratia Plena.

Lo xenodochio, invece, pare avesse avuto la funzione più specifica di accogliere gente di passaggio. Coloro che genericamente definiamo pellegrini, ma che potevano essere anche semplicemente viaggiatori con interessi religiosi. Insomma una sorta di taverna che però rientrava in una gestione in qualche modo regolata dalle organizzazioni della chiesa.
Nell’alto medioevo lo xenodochio diventa anche una parte del monastero. Un ambiente collegato, ma esterno al monastero, realizzato in maniera che potesse essere utilizzato autonomamente senza disturbare la vita del cenobio, pur godendo dell’assistenza dei monaci.

Ad esempio nel 742 nei pressi di Montecassino esisteva un S. Benedetto ad Caballum nelle cui pertinenze era uno xenodochio. Dovrebbe essere la più antica attestazione della esistenza nell’area cassinese di una struttura destinata ad ospitare i pellegrini.

Siamo nell’epoca immediatamente precedente il concilio di Nicea II (787) che dette particolare importanza alla necessità che le chiese possedessero reliquie di santi favorendo ed istituzionalizzando, in fin dei conti, un traffico di ossa dall’Oriente all’Occidente.

Non sappiamo quasi nulla del loro funzionamento e come venisse ripagata l’assistenza che veniva assicurata, che aveva sicuramente un costo.
Lo xenodochio, dunque, pur essendo espressione dell’organizzazione religiosa non aveva il carattere del monastero, quanto piuttosto del luogo di accoglienza occasionale. Anche per i monaci. Si pensi allo xenodochio che nell’XI secolo la comunità di Montecassino aveva in proprietà a S. Michele sul Gargano, proprio per assicurare una decorosa accoglienza ai monaci che da Montecassino si recavano nel santuario.

La piccola pietra di Capracotta, ricorda dunque che tra il 1720 e l’anno seguente fu demolito l’antico xenodochio e ne fu realizzato uno nuovo. La demolizione del vecchio fu determinata da incuria. Quindi è da presumere che da molto tempo esso non venisse usato.

Ovviamente nulla sappiamo della sua forma e della sua consistenza, anche perché non abbiamo manco conoscenza dell’edificio ricostruito.
Neppure riusciamo a capire quanto sia stato speso per la ricostruzione che fu finanziata con un cosiddetto “legato” (ovvero per disposizione testamentaria) di Filippo Bardaro e con la generica “pietate nonnullorum”, cioè con il contributo volontario di “qualcuno”.

Possiamo ritenere, però, che la sopravvivenza nella lapide del termine xenodochio, che appartiene alla tradizione altomedioevale, sia un indizio per immaginare che a Capracotta un edificio destinato all’ospitalità e collocato subito fuori della cinta muraria più antica, esistesse, come si suol dire quando non si hanno elementi certi, da tempo immemorabile.

(Arch. Franco Valente)

TOLOS

Una costruzione molto particolare, una struttura monocellulare con basamento cilindrico e tetto a foggia conica, ovvero con copertura a tolos. Queste costruzioni sono facilmente riscontrabili nel territorio di Capracotta e si tratta di una capanna in pietra a secco detta a falsa cupola che rappresenta un sistema economico e veloce grazie all’abbondanza di materiale e ad una certa predisposizione delle popolazioni locali all’accumulo ed alla sistemazione della pietra.

Si tratta di dimore molto modeste destinate soprattutto ad un ricovero temporaneo. Esse hanno mediamente un raggio che non raggiunge i due metri e non superano i tre metri di altezza .La nascita di queste costruzioni nel Comune di Capracotta è senz’altro antica e legata prevalentemente all’azione di bonifica del territorio montano operata dai contadini e dagli allevatori ai fini dell’incremento delle loro attività produttive. Il fenomeno si accentua maggiormente tra il XVIII ed il XIX secolo, allorquando a seguito di un forte incremento demografico, si dette avvio ad una attività di spietramento del territorio alle quote più alte, proprio per consentire una maggiore disponibilità di pascolo, mentre più a valle i terreni vennero utilizzati prevalentemente per fini agricoli. Vale la pena ricordare che tra il 1600 ed il 1700 Capracotta è uno dei paesi molisani con la più alta concentrazione di allevatori di ovini dediti alla transumanza sia stanziale che interregionale. Le capanne a falsa cupola, dette a tolos, sono realizzate con circoli di pietra aggettanti verso l’interno fino alla completa chiusura della luce. Sono costituite essenzialmente da due elementi strutturali: il basamento e la volta. Il basamento, generalmente a pianta circolare, è costituito da strati di pietre ben sovrapposte; lo spessore della muratura è in funzione dell’ambienta da realizzare in quanto, in parte, il basamento ha una funzione di contenimento delle spinte orizzontali che si ingenerano per la presenza della cupola nonostante questa abbia una struttura tale da renderle realmente minime.

(Fonte: L’edilizia rurale in Molise, Donatella Cialdea, Università degli Studi del Molise)

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