T-Turistica

Difficoltà

2,90 km

lunghezza

174 mt

Dislivello

Circa 1h 30m

Tempo di Percorrenza

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MURO DON GIULIO - SOTTO LA TERRA - INCROCIO SENTIERO 335

Ci si avvia con il sentiero 313 da Piazza Falconi e si percorre dapprima Via Roma. Lungo questa strada si incrocia Via Arco dove si consiglia una breve sosta per vedere una lapide che ricorda che lì nei secoli passati c’era uno Xenodochio. Si prosegue lungo Via San Giovanni per giungere al “Cutturiegl” – Via Maiella – dove si trova un Motore a Vento, un piccolo impianto eolico realizzato per fornire energia meccanica ad un falegnameria.
sentiero-314

A proseguire si scende nella Pineta di San Giovanni per proseguire lungo la Strada Provinciale fino ad imboccare la stradina con indicazione Sotto la Terra, dove inizia il sentiero 314
Lungo il percorso si trovano antiche masserie, talune risalenti al 1800.

Proseguendo si incrociano i sentieri 335 e 335A.

Il 335A conduce alla località “Acqua Zolfa”, mentre il 335 presenta due alternative, il rientro a Capracotta attraverso l’antico Tratturello oppure volendo allungare il percorso si procede verso i Tre Confini per poi giungere alla stazione di partenza degli impianti di risalita di Monte Capraro e quindi a Capracotta.

Punti d'interesse

Palazzo Baronale
IL PALAZZO BARONALE DI CAPRACOTTA

Il Palazzo Baronale di Capracotta, attuale municipio viene costruito nel XVI secolo come sede del potere baronale sul territorio durante la signoria della famiglia D’Eboli. In pratica era il palazzo baronale.

Non conosciamo la data precisa e il nome del barone. Esso, comunque, è realizzato al di fuori delle mura cittadine in un periodo di grande espansione economica, demografica e urbanistica di Capracotta: in quel secolo la cittadina esce fuori dagli angusti spazi della Terra Vecchia e si espande tutto’intorno.

Il Palazzo, nel corso dei secoli, è stato più volte oggetto di rifacimenti. Nel 1706 fu danneggiato dal terribile terremoto che colpì duramente Sulmona. Nel 1755, don Giacomo Capece Piscicelli succede nel titolo feudale di Duca di Capracotta al padre don Giuseppe. Provvede a ristrutturare per intero l’edificio. Il Palazzo vive il suo splendore, però, durante gli ultimi anni di vita della nuora del Duca Giacomo, Mariangela Rosa De Riso. Siamo agli inizi del 1800, durante il cosiddetto Decennio Francese (1804- 1814).

La Duchessa arreda le stanze con mobili dorati, accoglie gli intellettuali locali e vi organizza degli spettacoli comici per il sollazzo della popolazione. Con la fine del feudalesimo, il Palazzo viene venduto e da simbolo del potere feudale si trasforma nella sede del potere amministrativo della comunità cittadina.

Nel libro di Campanelli “Il territorio di Capracotta” del 1931, l’autore avanza l’ipotesi che il Palazzo Baronale possa essere stato costruito nel 1568 dal barone dell’epoca Gianvincenzo d’Ebulo al momento della sua successione al padre nel titolo feudale. In realtà, Campanelli traduce alla lettera la formula Castrum Capraecottae come castello (forte, rocca) di Capracotta, quindi il palazzo del barone, dimenticando (o non sapendo oppure sorvolando) che questa formula stava a indicare una cittadina dotata di mura, come sicuramente era Capracotta per quell’epoca.

Infine, sempre nella medesima opera e nella medesima pagina ancora Campanelli ricorda che nel 1667 c’è un accenno nel Libro delle Memorie al fatto che i cittadini si raccoglievano al pian terreno del palazzo in “pubblico parlamento” per discutere su importanti questioni.

Scarica il PDF “Il Territorio di Capracotta” (24,5MB)

La Bertesca
LA BERTESCA DI PIAZZA DI TELLA

All’angolo di un palazzo di Piazza Di Tella, in cima al Colle, è visibile una sorta di “balconcino” con la parte inferiore a forma conica. Si tratta dei resti di una bertesca medioevale: un antico strumento militare difensivo realizzato sulla mura di edifici fortificati per respingere gli attacchi di eventuali assedianti. Nella “nostra” bertesca manca completamente la parte superiore in muratura che consentiva ai difensori di poter scagliare, dall’alto e in maniera protetta, frecce, pietre, sostanze infiammate o liquidi bollenti sui nemici.

La presenza di una bertesca sul Colle ci consente di retrodatare almeno al XIV – fine XV secolo l’uscita dell’abitato di Capracotta dal quartiere originario (chiuso nel Medioevo da mura) di Terra Vecchia, cioè l’attuale zona della Chiesa Madre. La nascita dell’artiglieria, a fine quattrocento rese infatti inutile il ricorso a questo tipo di elemento architettonico, sarebbe bastata una cannonata per farla cadere giù insieme a tutti i difensori.
Oggi, i resti della bertesca di Piazza Di Tella rappresentano forse il più antico “monumento” di Capracotta dopo le distruzioni operate dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

(Dr. Francesco Di Rienzo)

MOTORE A VENTO

L’impianto eolico forniva energia alla segheria della Famiglia di Donato Antonio Sammarone. L’impianto, tecnologicamente molto avanzato, è tra i più antichi e longevi dell’Italia centro meridionale, tanto da essere pubblicato su riviste specializzate (ENEA).

Il motore a vento era costituito da un castello interamente re­alizzato con tralicci di legno ancorati al terreno, da una ruota, formata da otto raggi che sorreggono altrettante pale realizza­te in lamiera zincata, da un rotore in acciaio e da un braccio, anch’esso in lamiera, preposto ad individuare la direzione del vento. Il castello era collegato, tramite due passerelle, ad un fabbricato ubicato nell’attuale Via Maiella, dove erano instal­late la sega alternativa ed una moderna sega circolare della ditta Kirchner di Lipsia. La potenza generata dal vento, sem­pre così abbondante a Capracotta, veniva trasferita dal rotore alle due seghe con un sistema complesso di rinvii, formato da alberi ed ingranaggi di acciaio, ruote in legno e cinghie di cuoio. Intorno alla struttura sopra descritta, si nota l’inizio della costruzione di un edificio che diventerà la futura seghe­ria, attualmente ancora esistente.

Il castello in legno della foto per due volte fu abbattuto dalla furia del vento, tanto che l’impian­to rimase inutilizzato dal 1916 al 1937, anno in cui, per la terza volta, fu ricostruito, interamente in acciaio, da Savino Sammarone e da mio padre, Vincenzo Sammaro­ne, unico, a suo dire, in grado di farlo funzionare, in quanto a conoscenza del funzionamento dei motori a vento.

La nuova segheria, realizzata nell’edificio posto al di sotto del castello in acciaio, oltre alle due seghe già esistenti, fu completata an­che da un tornio, un trapano e da una mola. Dopo il fermo di quattro anni (1940-1943) dovuto al richiamo di Vincenzo Sammarone per gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, ha funzionato fino al 1955/1956, anno in cui la sega circolare fu trasferita nell’attuale sede ed allacciata all’energia elettrica. La nascita di questa segheria costituisce un primo tentativo di produzio­ne industriale di tavole diritte e ricurve, queste ultime dette corve, indispensabili per realizzare i basti degli animali da soma da parte dei bastieri o bastai, numerosissimi in quel pe­riodo a Capracotta per la fiorente industria boschiva.

Giuseppe Sammarone (da www.amicidicapracotta.com)

TRATTURELLO

Il tratturello è la strada secondaria di un tratturo.

Può essere definito un sentierominore, anch’esso di origine preistorica, in terra battuta, utilizzato per lo smistamento del passaggio degli armenti durante la transumanza.

La larghezza della sede del tracciato varia tra i 37, 27 e 18 metri.

Ha la funzione di collegare un territorio ad un tratturo oppure quella di raccordo tra più tratturi.

I tratturelli sono particolarmente diffusi sugli Appennini centro meridionali e fino agli anni cinquanta del XX secolo servivano per la transumanza delle greggi verso la Puglia

La progressiva espansione delle strade asfaltate ne sta determinando la scomparsa.

Esistono progetti di tutela e valorizzazione da parte della Sovrintendenza Archeologica.

ACQUA ZOLFA

Sorgente di acqua solfurea che scende dalle alture di Capracotta in un susseguirsi di cascatelle, per confluire nel fiume Sangro.

Nei decenni passati queste acque venivano utilizzate per la cura delle malattie della pelle, specialmente dagli ospiti dell’Hotel Quisisana di Capracotta.

TRE CONFINI
Località che delimita i confini tra i territori di Capracotta, Castel de Giudice e San Pietro Avellana.
MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA E DEI VECCHI MESTIERI

Il museo è una tappa del paese da non perdere che affascina il visitatore attraverso un piccolo viaggio guidato nella memoria e nel ricordo del passato, dove viene riproposta la vita quotidiana, cioè quella densa di sacrifici, da un lato, ma anche di momenti di grande calore e condivisione dei nostri nonni e bisnonni.

Pezzi in disuso, strumenti di lavoro e della quotidianità, tutti autentici e talvolta rari, patrimonio di una società ancora fortemente legata alle sue antiche origini, sono esposti, con cura, nelle sale del museo, allestito al pianterreno del Palazzo Baronale, oggi sede del Municipio che nel passato ha ospitato le varie famiglie feudali che si sono succedute nel territorio di Capracotta.

Per la realizzazione di questo museo va un grazie speciale non solo all’Amministrazione Comunale che lo ha realizzato, scegliendo dei locali, che riportati alla loro originale struttura, hanno contribuito a rendere ancora più accogliente e suggestiva questa passeggiata nel passato, ma anche al Signor Loreto Di Nucci che ha iniziato un paziente lavoro di ricerca e di raccolta di vecchi oggetti utilizzati nelle attività agricole ed artigianali legate alla vita capracottese, affinché non andassero perduti e, agli abitanti residenti nel paese e non, che hanno contribuito ad arricchirlo donando oggetti che si sono tramandati e che custodiscono gelosamente nelle proprie case, legati al mondo contadino di ieri e per, alcuni aspetti, di oggi. Le caratteristiche dello spazio espositivo e i criteri di allestimento consentono un’agevole visita. Di attrezzi e di oggetti in genere ce ne sono davvero tanti, ognuno testimone di arti manuali tramandate di generazione in generazione che hanno fatto la storia del nostro paese. Inoltre sembra quasi che ogni attrezzo rechi, ancora oggi, le impronte delle mani di chi li ha costruiti, utilizzati, riparati e tramandati. Quindi, da ciò, è facile dedurre che dietro ciascun oggetto c’è una storia, anzi, sono gli oggetti la storia stessa che si dipana come una tessitura fatta di povertà. Ogni oggetto è stato prima catalogato e poi identificato da un cartellino su cui è scritto sia il nome in dialetto capracottese che in italiano (così tutti possono capire di cosa si tratta e a cosa servivano), sia il nome della persona o della famiglia che lo ha donato al museo. Da subito i visitatori hanno capito ed apprezzato l’intento della responsabile del museo cioè quello di offrire a coloro che lo visitano scorci di vita contadina che hanno caratterizzato, da sempre, l’uomo capracottese mantenendo viva la memoria delle tradizioni e della storia capracottese, facendo fare a tutti un bellissimo tuffo nel passato … Il percorso è stato concepito come un immaginario viaggio nel passato attraverso le principali fasi della vita del popolo capracottese ben documentate da oggetti, fotografie, ecc…, esposti nel museo.

Varcata la porta d’ingresso si può da subito ammirare l’antica muratura in pietra arricchita di archi di una precisione millimetrica, ritornata alla luce grazie ad un intervento di restauro, che ha consentito di riproporre, all’attenzione e alla curiosità dei visitatori, un esempio di edilizia abitativa locale, testimonianza di un modo di lavorare che appartengono da sempre alla comunità capracottese.

Gli spazi espositivi racchiudono i più svariati oggetti che testimoniano, anzi raccontano, in maniera molto chiara, come si svolgevano le varie attività agricole e artigianali che da sempre hanno fatto parte della vita quotidiana e lavorativa del popolo capracottese e che oggi, sono scomparse del tutto o quasi. Strumenti di lavoro di altri tempi, necessità quotidiane dei pastori, dei contadini, delle donne e degli artigiani (falegnami, calzolai,sarti, fabbri, ecc…), sono esposti con cura nelle sale dove è allestita la mostra.

All’ingresso, su entrambi i lati, troviamo due manichini che indossano i costumi tradizionali capracottesi e sulle spalle la donna ha appoggiato uno scialle mentre l’uomo il classico tabarro (“cuappott a rota” in dialetto capracottese). Proseguendo troviamo una sala con sedie adatta per convegni, per la presentazione di libri, ecc…. Qui è possibile ammirare l’antico meccanismo che faceva muovere le lancette dell’orologio posto sull’antica Torre dell’Orologio che, al contrario è stata demolita nel 1970 ed è stata riprodotta in miniatura per far vedere come era strutturata. Completano la sala alcuni documenti antichi come la lettera di Giuseppe Garibaldi inviata alla Società di Mutuo Soccorso di Capracotta ed alcune lettere di un emigrante capracottese e articoli di giornali del 1950, entrambi, risalenti al periodo in cui fu donato lo “Spazzaneve Clipper” al paese.

Tali oggetti, ben combinati nel percorso, rievocano il lavoro degli uomini dediti al pascolo, alla preparazione del formaggio e della ricotta e alla cura della terra; accanto, ai quali, ci sono altri numerosi attrezzi che ricordano, nella memoria, gli antichi mestieri del tempo e i vari momenti di lavoro che venivano svolti durante l’arco della giornata. Altri spazi sono riservati al calzolaio e al falegname, dove sono visibili arnesi dimenticati dalle moderne tecnologie e che mostrano i ritmi e le consuetudini degli artigiani di un tempo. Un altro spazio ospita l’arte femminile dove vi sono esposti alcuni attrezzi della tessitura.

Sono visibili, in un altro spazio del Museo, varietà di ceste di vimini di varie grandezze, setacci, ecc…, utili ed indispensabili alla pulizia del grano e alla lavorazione della farina. Infine, un angolo è stato dedicato alla neve, da sempre, amica e nemica dei capracottesi.

In sintesi, all’interno del museo, sono presenti oggetti appartenuti alla vita pastorale, contadina e artigiana del popolo capracottese, che hanno subito mutamenti nel loro percorso di trasformazione avvenuti nei secoli successivi. Essi, inoltre, ne hanno segnato il passaggio da testimonianze reali e materiali, in generale e nello specifico, di forme di lavoro e di vita domestica non più attuali, a reperti da raccogliere, conservare, catalogare ed esporre in spazi museali (come nel nostro caso), nei quali, i visitatori possono ritrovare i segni della propria identità e riconoscerne, sotto tutti i punti di vista, le proprie origini.

La vita quotidiana di un museo è data dall’insieme di molte attività, spesso disparate nei modi in cui si realizzano e che sembrano svolgersi in direzioni diverse: la conservazione, la tutela, la risistemazione di alcuni oggetti, l’esposizione nelle varie sale, la cura, la catalogazione e la ricerca del materiale. In realtà il lavoro che si svolge dietro le quinte di un museo della civiltà contadina, si sforza sempre di raggiungere un unico obiettivo: conoscere e affermare la nostra identità culturale e rendere partecipe la gente che la storia di chi ci ha preceduti è la nostra storia. Per questo il museo vuole dialogare con i visitatori raccontando la sua “vita quotidiana” come se stessimo sfogliando un album di famiglia.

(A cura di Emilia Mendozzi)

UNO XENODOCHIO A CAPRACOTTA

In via Arco a Capracotta, allo spigolo di un fabbricato, rimane a vista una lapide apparentemente incomprensibile, non solo perché è in latino, ma anche perché segnala qualcosa che non esiste più.

Si tratta di una pietra rettangolare, limitata da una cornice piuttosto semplice e di grandezza non particolare, dalla quale si ricava con un po’ di fatica questa epigrafe:
XENODOCHIUM HOC VETVSTA
TE MAJORVMQUE INCVRIA PENITVS
DEMOLITVM ANNO ITERO 1720
ET 1721 A FVNDAMENTIS RAEDI
FICATVM FVIT EX LEGATO R.D. PHI
LIPPO BARDARO ET NONNVLLORVM
PIETATE

Questa pietra non sfuggì a Luigi Campanelli che ne parlò nelle sue Memorie su Il Territorio di Capracotta. Egli annotava, peraltro, che l’area vicina veniva definita con il toponimo di Ospedale.

Quest’ultima notazione forse ci aiuta a capire qualcosa che oggi non esiste più, ma che una lapide ci costringe a ricordare.

Il termine ospedale si riferisce ad una struttura che ha la funzione specifica di accogliere ed assistere persone che si trovano in un particolare stato fisico. Non pensiamo ai moderni nosocomi. Nel medioevo gli ospedali erano edifici di grande semplicità destinati ad una accoglienza molto sommaria. Quasi sempre non più di uno stanzone dove poteva essere accolta, anche in promiscuità, una persona che aveva bisogno di cure che privatamente non era in grado di farsi fare. Una particolare attenzione a tal tipo di assistenza appartenne a congregazioni laicali che nel regno di Napoli si diffusero al tempo di Roberto d’Angiò con il proliferare delle congreghe dedicate all’Ave Gratia Plena.

Lo xenodochio, invece, pare avesse avuto la funzione più specifica di accogliere gente di passaggio. Coloro che genericamente definiamo pellegrini, ma che potevano essere anche semplicemente viaggiatori con interessi religiosi. Insomma una sorta di taverna che però rientrava in una gestione in qualche modo regolata dalle organizzazioni della chiesa.
Nell’alto medioevo lo xenodochio diventa anche una parte del monastero. Un ambiente collegato, ma esterno al monastero, realizzato in maniera che potesse essere utilizzato autonomamente senza disturbare la vita del cenobio, pur godendo dell’assistenza dei monaci.

Ad esempio nel 742 nei pressi di Montecassino esisteva un S. Benedetto ad Caballum nelle cui pertinenze era uno xenodochio. Dovrebbe essere la più antica attestazione della esistenza nell’area cassinese di una struttura destinata ad ospitare i pellegrini.

Siamo nell’epoca immediatamente precedente il concilio di Nicea II (787) che dette particolare importanza alla necessità che le chiese possedessero reliquie di santi favorendo ed istituzionalizzando, in fin dei conti, un traffico di ossa dall’Oriente all’Occidente.

Non sappiamo quasi nulla del loro funzionamento e come venisse ripagata l’assistenza che veniva assicurata, che aveva sicuramente un costo.
Lo xenodochio, dunque, pur essendo espressione dell’organizzazione religiosa non aveva il carattere del monastero, quanto piuttosto del luogo di accoglienza occasionale. Anche per i monaci. Si pensi allo xenodochio che nell’XI secolo la comunità di Montecassino aveva in proprietà a S. Michele sul Gargano, proprio per assicurare una decorosa accoglienza ai monaci che da Montecassino si recavano nel santuario.

La piccola pietra di Capracotta, ricorda dunque che tra il 1720 e l’anno seguente fu demolito l’antico xenodochio e ne fu realizzato uno nuovo. La demolizione del vecchio fu determinata da incuria. Quindi è da presumere che da molto tempo esso non venisse usato.

Ovviamente nulla sappiamo della sua forma e della sua consistenza, anche perché non abbiamo manco conoscenza dell’edificio ricostruito.
Neppure riusciamo a capire quanto sia stato speso per la ricostruzione che fu finanziata con un cosiddetto “legato” (ovvero per disposizione testamentaria) di Filippo Bardaro e con la generica “pietate nonnullorum”, cioè con il contributo volontario di “qualcuno”.

Possiamo ritenere, però, che la sopravvivenza nella lapide del termine xenodochio, che appartiene alla tradizione altomedioevale, sia un indizio per immaginare che a Capracotta un edificio destinato all’ospitalità e collocato subito fuori della cinta muraria più antica, esistesse, come si suol dire quando non si hanno elementi certi, da tempo immemorabile.

(Arch. Franco Valente)

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