PINETA SAN GIOVANNI - FONTE SANMBUCO - PRATO GENTILE

Si scende nella Pineta di San Giovanni per percorrere la Strada Provinciale, fino a raggiungere il bivio Sotto la Terra. Superato il bivio di qualche centinaio di metri si imbocca un viottolo che conduce alla Fonte Sambuco (prima di questa fonte si trova la sorgente nascosta, piccolo fontanile recentemente recuperato).
Nelle immediate vicinanze della Fonte Sambuco si trova il Casotto di Nunnarosa, che ci ricorda la triste vicenda dei Fratelli Fiadino, che ospitarono durante la seconda guerra mondiale alcuni soldati fuggiaschi appartenenti alle forze alleate e per questo “reato” due fratelli Rodolfo e Gasperino Fiadino furono fucilati nel novembre del 1943 dai Tedeschi.
Superata la Fonte Sambuco si incrocia il Vallone delle Incotte. Seguendo in salita il Vallone in un ambiente caratteristico per la sua natura molto selvaggia, si raggiunge l’Anello di Valle delle piste di sci di fondo di Prato Gentile (Sentiero 309).
Punti d'interesse

IL PALAZZO BARONALE DI CAPRACOTTA
Il Palazzo Baronale di Capracotta, attuale municipio viene costruito nel XVI secolo come sede del potere baronale sul territorio durante la signoria della famiglia D’Eboli. In pratica era il palazzo baronale.
Non conosciamo la data precisa e il nome del barone. Esso, comunque, è realizzato al di fuori delle mura cittadine in un periodo di grande espansione economica, demografica e urbanistica di Capracotta: in quel secolo la cittadina esce fuori dagli angusti spazi della Terra Vecchia e si espande tutto’intorno.
Il Palazzo, nel corso dei secoli, è stato più volte oggetto di rifacimenti. Nel 1706 fu danneggiato dal terribile terremoto che colpì duramente Sulmona. Nel 1755, don Giacomo Capece Piscicelli succede nel titolo feudale di Duca di Capracotta al padre don Giuseppe. Provvede a ristrutturare per intero l’edificio. Il Palazzo vive il suo splendore, però, durante gli ultimi anni di vita della nuora del Duca Giacomo, Mariangela Rosa De Riso. Siamo agli inizi del 1800, durante il cosiddetto Decennio Francese (1804- 1814).
La Duchessa arreda le stanze con mobili dorati, accoglie gli intellettuali locali e vi organizza degli spettacoli comici per il sollazzo della popolazione. Con la fine del feudalesimo, il Palazzo viene venduto e da simbolo del potere feudale si trasforma nella sede del potere amministrativo della comunità cittadina.
Nel libro di Campanelli “Il territorio di Capracotta” del 1931, l’autore avanza l’ipotesi che il Palazzo Baronale possa essere stato costruito nel 1568 dal barone dell’epoca Gianvincenzo d’Ebulo al momento della sua successione al padre nel titolo feudale. In realtà, Campanelli traduce alla lettera la formula Castrum Capraecottae come castello (forte, rocca) di Capracotta, quindi il palazzo del barone, dimenticando (o non sapendo oppure sorvolando) che questa formula stava a indicare una cittadina dotata di mura, come sicuramente era Capracotta per quell’epoca.
Infine, sempre nella medesima opera e nella medesima pagina ancora Campanelli ricorda che nel 1667 c’è un accenno nel Libro delle Memorie al fatto che i cittadini si raccoglievano al pian terreno del palazzo in “pubblico parlamento” per discutere su importanti questioni.
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LA BERTESCA DI PIAZZA DI TELLA
All’angolo di un palazzo di Piazza Di Tella, in cima al Colle, è visibile una sorta di “balconcino” con la parte inferiore a forma conica. Si tratta dei resti di una bertesca medioevale: un antico strumento militare difensivo realizzato sulla mura di edifici fortificati per respingere gli attacchi di eventuali assedianti. Nella “nostra” bertesca manca completamente la parte superiore in muratura che consentiva ai difensori di poter scagliare, dall’alto e in maniera protetta, frecce, pietre, sostanze infiammate o liquidi bollenti sui nemici.
La presenza di una bertesca sul Colle ci consente di retrodatare almeno al XIV – fine XV secolo l’uscita dell’abitato di Capracotta dal quartiere originario (chiuso nel Medioevo da mura) di Terra Vecchia, cioè l’attuale zona della Chiesa Madre. La nascita dell’artiglieria, a fine quattrocento rese infatti inutile il ricorso a questo tipo di elemento architettonico, sarebbe bastata una cannonata per farla cadere giù insieme a tutti i difensori.
Oggi, i resti della bertesca di Piazza Di Tella rappresentano forse il più antico “monumento” di Capracotta dopo le distruzioni operate dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.
(Dr. Francesco Di Rienzo)

MOTORE A VENTO
L’impianto eolico forniva energia alla segheria della Famiglia di Donato Antonio Sammarone. L’impianto, tecnologicamente molto avanzato, è tra i più antichi e longevi dell’Italia centro meridionale, tanto da essere pubblicato su riviste specializzate (ENEA).
Il motore a vento era costituito da un castello interamente realizzato con tralicci di legno ancorati al terreno, da una ruota, formata da otto raggi che sorreggono altrettante pale realizzate in lamiera zincata, da un rotore in acciaio e da un braccio, anch’esso in lamiera, preposto ad individuare la direzione del vento. Il castello era collegato, tramite due passerelle, ad un fabbricato ubicato nell’attuale Via Maiella, dove erano installate la sega alternativa ed una moderna sega circolare della ditta Kirchner di Lipsia. La potenza generata dal vento, sempre così abbondante a Capracotta, veniva trasferita dal rotore alle due seghe con un sistema complesso di rinvii, formato da alberi ed ingranaggi di acciaio, ruote in legno e cinghie di cuoio. Intorno alla struttura sopra descritta, si nota l’inizio della costruzione di un edificio che diventerà la futura segheria, attualmente ancora esistente.
Il castello in legno della foto per due volte fu abbattuto dalla furia del vento, tanto che l’impianto rimase inutilizzato dal 1916 al 1937, anno in cui, per la terza volta, fu ricostruito, interamente in acciaio, da Savino Sammarone e da mio padre, Vincenzo Sammarone, unico, a suo dire, in grado di farlo funzionare, in quanto a conoscenza del funzionamento dei motori a vento.
La nuova segheria, realizzata nell’edificio posto al di sotto del castello in acciaio, oltre alle due seghe già esistenti, fu completata anche da un tornio, un trapano e da una mola. Dopo il fermo di quattro anni (1940-1943) dovuto al richiamo di Vincenzo Sammarone per gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, ha funzionato fino al 1955/1956, anno in cui la sega circolare fu trasferita nell’attuale sede ed allacciata all’energia elettrica. La nascita di questa segheria costituisce un primo tentativo di produzione industriale di tavole diritte e ricurve, queste ultime dette corve, indispensabili per realizzare i basti degli animali da soma da parte dei bastieri o bastai, numerosissimi in quel periodo a Capracotta per la fiorente industria boschiva.
Giuseppe Sammarone (da www.amicidicapracotta.com)

FONTE SAMBUCO
Tipico fontanile di campagna capracottese.
CASOTTO NUNNAROSA
E’ in questa area che durante il secondo conflitto mondiale furono ospitati e sfamati alcuni soldati delle forze alleate che era fuggiti dai campi di prigionia tedeschi.
Questa meritevole azione portò alla fucilazione dei Fratelli Rodolfo e Gasperino Fiadino, rei di aver aiutato i fuggiaschi.
Scarica il PDF “70^ anniversario della distruzione di Capracotta” (8,5 MB)

VALLONE DELLE INCOTTE
Un vallone che da Prato Gentile scende verso la vallata del Sangro con considerevole portata di acqua durante i periodi di scioglimento delle nevi.

MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA E DEI VECCHI MESTIERI
Il museo è una tappa del paese da non perdere che affascina il visitatore attraverso un piccolo viaggio guidato nella memoria e nel ricordo del passato, dove viene riproposta la vita quotidiana, cioè quella densa di sacrifici, da un lato, ma anche di momenti di grande calore e condivisione dei nostri nonni e bisnonni.
Pezzi in disuso, strumenti di lavoro e della quotidianità, tutti autentici e talvolta rari, patrimonio di una società ancora fortemente legata alle sue antiche origini, sono esposti, con cura, nelle sale del museo, allestito al pianterreno del Palazzo Baronale, oggi sede del Municipio che nel passato ha ospitato le varie famiglie feudali che si sono succedute nel territorio di Capracotta.
Per la realizzazione di questo museo va un grazie speciale non solo all’Amministrazione Comunale che lo ha realizzato, scegliendo dei locali, che riportati alla loro originale struttura, hanno contribuito a rendere ancora più accogliente e suggestiva questa passeggiata nel passato, ma anche al Signor Loreto Di Nucci che ha iniziato un paziente lavoro di ricerca e di raccolta di vecchi oggetti utilizzati nelle attività agricole ed artigianali legate alla vita capracottese, affinché non andassero perduti e, agli abitanti residenti nel paese e non, che hanno contribuito ad arricchirlo donando oggetti che si sono tramandati e che custodiscono gelosamente nelle proprie case, legati al mondo contadino di ieri e per, alcuni aspetti, di oggi. Le caratteristiche dello spazio espositivo e i criteri di allestimento consentono un’agevole visita. Di attrezzi e di oggetti in genere ce ne sono davvero tanti, ognuno testimone di arti manuali tramandate di generazione in generazione che hanno fatto la storia del nostro paese. Inoltre sembra quasi che ogni attrezzo rechi, ancora oggi, le impronte delle mani di chi li ha costruiti, utilizzati, riparati e tramandati. Quindi, da ciò, è facile dedurre che dietro ciascun oggetto c’è una storia, anzi, sono gli oggetti la storia stessa che si dipana come una tessitura fatta di povertà. Ogni oggetto è stato prima catalogato e poi identificato da un cartellino su cui è scritto sia il nome in dialetto capracottese che in italiano (così tutti possono capire di cosa si tratta e a cosa servivano), sia il nome della persona o della famiglia che lo ha donato al museo. Da subito i visitatori hanno capito ed apprezzato l’intento della responsabile del museo cioè quello di offrire a coloro che lo visitano scorci di vita contadina che hanno caratterizzato, da sempre, l’uomo capracottese mantenendo viva la memoria delle tradizioni e della storia capracottese, facendo fare a tutti un bellissimo tuffo nel passato … Il percorso è stato concepito come un immaginario viaggio nel passato attraverso le principali fasi della vita del popolo capracottese ben documentate da oggetti, fotografie, ecc…, esposti nel museo.
Varcata la porta d’ingresso si può da subito ammirare l’antica muratura in pietra arricchita di archi di una precisione millimetrica, ritornata alla luce grazie ad un intervento di restauro, che ha consentito di riproporre, all’attenzione e alla curiosità dei visitatori, un esempio di edilizia abitativa locale, testimonianza di un modo di lavorare che appartengono da sempre alla comunità capracottese.
Gli spazi espositivi racchiudono i più svariati oggetti che testimoniano, anzi raccontano, in maniera molto chiara, come si svolgevano le varie attività agricole e artigianali che da sempre hanno fatto parte della vita quotidiana e lavorativa del popolo capracottese e che oggi, sono scomparse del tutto o quasi. Strumenti di lavoro di altri tempi, necessità quotidiane dei pastori, dei contadini, delle donne e degli artigiani (falegnami, calzolai,sarti, fabbri, ecc…), sono esposti con cura nelle sale dove è allestita la mostra.
All’ingresso, su entrambi i lati, troviamo due manichini che indossano i costumi tradizionali capracottesi e sulle spalle la donna ha appoggiato uno scialle mentre l’uomo il classico tabarro (“cuappott a rota” in dialetto capracottese). Proseguendo troviamo una sala con sedie adatta per convegni, per la presentazione di libri, ecc…. Qui è possibile ammirare l’antico meccanismo che faceva muovere le lancette dell’orologio posto sull’antica Torre dell’Orologio che, al contrario è stata demolita nel 1970 ed è stata riprodotta in miniatura per far vedere come era strutturata. Completano la sala alcuni documenti antichi come la lettera di Giuseppe Garibaldi inviata alla Società di Mutuo Soccorso di Capracotta ed alcune lettere di un emigrante capracottese e articoli di giornali del 1950, entrambi, risalenti al periodo in cui fu donato lo “Spazzaneve Clipper” al paese.
Tali oggetti, ben combinati nel percorso, rievocano il lavoro degli uomini dediti al pascolo, alla preparazione del formaggio e della ricotta e alla cura della terra; accanto, ai quali, ci sono altri numerosi attrezzi che ricordano, nella memoria, gli antichi mestieri del tempo e i vari momenti di lavoro che venivano svolti durante l’arco della giornata. Altri spazi sono riservati al calzolaio e al falegname, dove sono visibili arnesi dimenticati dalle moderne tecnologie e che mostrano i ritmi e le consuetudini degli artigiani di un tempo. Un altro spazio ospita l’arte femminile dove vi sono esposti alcuni attrezzi della tessitura.
Sono visibili, in un altro spazio del Museo, varietà di ceste di vimini di varie grandezze, setacci, ecc…, utili ed indispensabili alla pulizia del grano e alla lavorazione della farina. Infine, un angolo è stato dedicato alla neve, da sempre, amica e nemica dei capracottesi.
In sintesi, all’interno del museo, sono presenti oggetti appartenuti alla vita pastorale, contadina e artigiana del popolo capracottese, che hanno subito mutamenti nel loro percorso di trasformazione avvenuti nei secoli successivi. Essi, inoltre, ne hanno segnato il passaggio da testimonianze reali e materiali, in generale e nello specifico, di forme di lavoro e di vita domestica non più attuali, a reperti da raccogliere, conservare, catalogare ed esporre in spazi museali (come nel nostro caso), nei quali, i visitatori possono ritrovare i segni della propria identità e riconoscerne, sotto tutti i punti di vista, le proprie origini.
La vita quotidiana di un museo è data dall’insieme di molte attività, spesso disparate nei modi in cui si realizzano e che sembrano svolgersi in direzioni diverse: la conservazione, la tutela, la risistemazione di alcuni oggetti, l’esposizione nelle varie sale, la cura, la catalogazione e la ricerca del materiale. In realtà il lavoro che si svolge dietro le quinte di un museo della civiltà contadina, si sforza sempre di raggiungere un unico obiettivo: conoscere e affermare la nostra identità culturale e rendere partecipe la gente che la storia di chi ci ha preceduti è la nostra storia. Per questo il museo vuole dialogare con i visitatori raccontando la sua “vita quotidiana” come se stessimo sfogliando un album di famiglia.
(A cura di Emilia Mendozzi)

UNO XENODOCHIO A CAPRACOTTA
In via Arco a Capracotta, allo spigolo di un fabbricato, rimane a vista una lapide apparentemente incomprensibile, non solo perché è in latino, ma anche perché segnala qualcosa che non esiste più.
Si tratta di una pietra rettangolare, limitata da una cornice piuttosto semplice e di grandezza non particolare, dalla quale si ricava con un po’ di fatica questa epigrafe:
XENODOCHIUM HOC VETVSTA
TE MAJORVMQUE INCVRIA PENITVS
DEMOLITVM ANNO ITERO 1720
ET 1721 A FVNDAMENTIS RAEDI
FICATVM FVIT EX LEGATO R.D. PHI
LIPPO BARDARO ET NONNVLLORVM
PIETATE
Questa pietra non sfuggì a Luigi Campanelli che ne parlò nelle sue Memorie su Il Territorio di Capracotta. Egli annotava, peraltro, che l’area vicina veniva definita con il toponimo di Ospedale.
Quest’ultima notazione forse ci aiuta a capire qualcosa che oggi non esiste più, ma che una lapide ci costringe a ricordare.
Il termine ospedale si riferisce ad una struttura che ha la funzione specifica di accogliere ed assistere persone che si trovano in un particolare stato fisico. Non pensiamo ai moderni nosocomi. Nel medioevo gli ospedali erano edifici di grande semplicità destinati ad una accoglienza molto sommaria. Quasi sempre non più di uno stanzone dove poteva essere accolta, anche in promiscuità, una persona che aveva bisogno di cure che privatamente non era in grado di farsi fare. Una particolare attenzione a tal tipo di assistenza appartenne a congregazioni laicali che nel regno di Napoli si diffusero al tempo di Roberto d’Angiò con il proliferare delle congreghe dedicate all’Ave Gratia Plena.
Lo xenodochio, invece, pare avesse avuto la funzione più specifica di accogliere gente di passaggio. Coloro che genericamente definiamo pellegrini, ma che potevano essere anche semplicemente viaggiatori con interessi religiosi. Insomma una sorta di taverna che però rientrava in una gestione in qualche modo regolata dalle organizzazioni della chiesa.
Nell’alto medioevo lo xenodochio diventa anche una parte del monastero. Un ambiente collegato, ma esterno al monastero, realizzato in maniera che potesse essere utilizzato autonomamente senza disturbare la vita del cenobio, pur godendo dell’assistenza dei monaci.
Ad esempio nel 742 nei pressi di Montecassino esisteva un S. Benedetto ad Caballum nelle cui pertinenze era uno xenodochio. Dovrebbe essere la più antica attestazione della esistenza nell’area cassinese di una struttura destinata ad ospitare i pellegrini.
Siamo nell’epoca immediatamente precedente il concilio di Nicea II (787) che dette particolare importanza alla necessità che le chiese possedessero reliquie di santi favorendo ed istituzionalizzando, in fin dei conti, un traffico di ossa dall’Oriente all’Occidente.
Non sappiamo quasi nulla del loro funzionamento e come venisse ripagata l’assistenza che veniva assicurata, che aveva sicuramente un costo.
Lo xenodochio, dunque, pur essendo espressione dell’organizzazione religiosa non aveva il carattere del monastero, quanto piuttosto del luogo di accoglienza occasionale. Anche per i monaci. Si pensi allo xenodochio che nell’XI secolo la comunità di Montecassino aveva in proprietà a S. Michele sul Gargano, proprio per assicurare una decorosa accoglienza ai monaci che da Montecassino si recavano nel santuario.
La piccola pietra di Capracotta, ricorda dunque che tra il 1720 e l’anno seguente fu demolito l’antico xenodochio e ne fu realizzato uno nuovo. La demolizione del vecchio fu determinata da incuria. Quindi è da presumere che da molto tempo esso non venisse usato.
Ovviamente nulla sappiamo della sua forma e della sua consistenza, anche perché non abbiamo manco conoscenza dell’edificio ricostruito.
Neppure riusciamo a capire quanto sia stato speso per la ricostruzione che fu finanziata con un cosiddetto “legato” (ovvero per disposizione testamentaria) di Filippo Bardaro e con la generica “pietate nonnullorum”, cioè con il contributo volontario di “qualcuno”.
Possiamo ritenere, però, che la sopravvivenza nella lapide del termine xenodochio, che appartiene alla tradizione altomedioevale, sia un indizio per immaginare che a Capracotta un edificio destinato all’ospitalità e collocato subito fuori della cinta muraria più antica, esistesse, come si suol dire quando non si hanno elementi certi, da tempo immemorabile.
(Arch. Franco Valente)

PRATO GENTILE
Prato Gentile è una amena località a circa 1.600 metri di altitudine s.l.m. dove è d’obbligo una sosta per ammirare uno splendido ed incontaminato ambiente montano.
Offre suggestivi panorami sia nella stagione estiva che in quella invernale.
A Prato Gentile si trova lo stadio del fondo che ha visto disputare importanti gare di interesse nazionale ed internazionale, su una pista di fondo ritenuta tra le più attraenti di tutto il panorama nazionale. Lo sci di fondo è una disciplina che consente di vivere sport e natura in prima persona. Coloro che intendono avviarsi a questa disciplina sportiva invernale possono avvalersi della locale Scuola di Sci di Fondo e noleggiare le attrezzature presso gli appositi esercenti.
Nella stagione invernale partendo da Prato Gentile, gli amanti della montagna possono “ciaspolare” alla scoperta di incantevoli angoli nascosti.
D’estate, la prima domenica d’agosto sul pianoro di Prato Gentile si tiene la tradizionale sagra della Pezzata, una prelibatezza culinaria d’altri tempi che rievoca l’antico rito pastorale della transumanza. La manifestazione nell’anno 2015 ha ottenuto il Patrocinio di EXPO 2015.
L’emittente televisiva americana CNN in un servizio pubblicitario pubblicato sul proprio sito internet riguardante la Regione Molise, nei citare Capracotta fa riferimento sia all’importanza dello sci di fondo che alla pietanza della Pezzata.
Recentemente Prato Gentile è stato oggetto di restyling lungo le piste di sci di fondo ed è stato dotato di ulteriori strutture al fine di accogliere al meglio i turisti, gli appassionati della neve e della montagna.
E’ possibile degustare prodotti locali nelle strutture ricettive dislocate nelle immediate vicinanze del pianoro.
La località dista circa 3 km. dal centro abitato.